7 Novembre 2022
Da manodopera a testadopera: il lato umano dell'intelligenza artificiale
di Massimo Chiriatti, Nicola Intini, Corrado La Forgia, Paola Liberace, autori del Manifesto per l’Intelligenza Artificiale*
In una delle scene di “Interstellar”, bellissimo film di Cristopher Nolan di qualche anno fa, il protagonista –in orbita verso nuove galassie – chiede a uno dei due robot dell’equipaggio spaziale, lo spiritosone TARS, quali siano le sue impostazioni di umorismo: nel siparietto che ne nasce, le irriverenti battute rivolte dalla macchina agli umani a bordo si fermano quando l’astronauta gli impone di abbassare il suo livello di spirito dal 100 al 70%. Senza svelare il finale del film, si può anticipare che il confronto viene riproposto nella parte finale, in un altro divertente scambio tra i due: la macchina, velocissima, intelligente e propositiva, e l’umano, che resta pur sempre il decisore di ultima istanza. Se volessimo cercare oltre nella cinematografia contemporanea, non mancherebbero di certo i riferimenti all’intelligenza artificiale, alle sue potenzialità, al suo ruolo, né le ipotesi più o meno fantasiose sui suoi possibili sviluppi. Quello di TARS è però uno dei casi che forse meglio rappresenta i principi alla base del “Manifesto per l’Intelligenza Artificiale”, pubblicato a Maggio su Il Sole 24 Ore e rivolto a tutte le persone interessate a discutere, laicamente e al di là dei confini delle discipline, quello che l’IA può significare per il nostro futuro.
Anzitutto, l’IA di cui parliamo è quella cosiddetta “debole”, applicata in campi specifici: da distinguere dall’intelligenza artificiale generale, a tutt’oggi possibile solo in linea teorica, che invece di eseguire alcuni dei compiti tipici dell’intelligenza umana si pone l’obiettivo di emulare questa intelligenza in tutto e per tutto. L’IA debole, o ristretta, è dunque costituita da alcuni ingredienti basilari, che sono gli stessi di qualsiasi sistema informatico: i dati, necessari in enormi quantità, e sempre più ricavati da qualsiasi attività, anche quelle in origine escluse dalla digitalizzazione – in un processo di vera e propria “datificazione” del mondo; gli algoritmi, sequenze di istruzioni eseguiti da un computer (terzo ingrediente), che li utilizza per elaborare i dati e trasformarli in informazione. Non bisogna però pensare a una mera serie di istruzioni predeterminate: gli algoritmi di oggi sono in grado di imparare dai dati che vengono loro sottoposti, giungendo a elaborare modelli non sempre di immediata interpretazione: da qui il problema della “black box”, ma anche i primi timori sul fatto che l’apprendimento automatico, ispirato a quello umano, possa un giorno prevaricare quest’ultimo. A questo proposito, il Manifesto afferma con forza che l’IA non ci sostituirà: perché, se i dati valgono più degli oggetti da cui derivano, l’informazione vale più dei dati, e la conoscenza vale più dell’informazione; soprattutto, la saggezza derivante dalla conoscenza, che è inestimabile, resta appannaggio dell’uomo.
Per questo, l’IA non deve fare paura. Non solo non può fare tutto, ma dipende da noi umani per l’elemento più importante: il fine delle sue azioni, frutto di decisioni che è l’uomo a prendere, e a cui l’uomo soltanto può dare un senso. Proprio come nel caso di TARS, l’IA resta un sofisticatissimo strumento di calcolo, che coincide in ultima istanza con la somma delle sue parti. Nulla a che vedere con gli esseri coscienti, attivi, animati, capaci di immaginare che l’hanno costruita, assemblandone le parti: per questo, pur essendo noi umani destinati a una irreversibile fine, la macchina serve ai nostri fini reversibili. E lo fa più che egregiamente, superandoci in direzioni nelle quali siamo strutturalmente limitati: velocità, precisione, efficienza, completezza, innovazione. Impianti industriali, sistemi di agricoltura avanzata, strategie di mercato, piani finanziari sono solo alcuni degli esempi di cose che già facciamo, ma che l’IA ci aiuta a fare meglio; e nel contesto della fabbrica, grazie a tecnologie a costi accessibili, è possibile sensorizzare e connettere macchine, impianti e processi per estrarre dati e fare previsioni un tempo lunghe e onerose, varcando nuove frontiere. Delegando alle macchine le operazioni da “manodopera”, diventa possibile per gli uomini concentrarsi su quello che sanno fare meglio: la “testadopera”, traendo vantaggio dalla nostra risorsa più preziosa.
Sta agli uomini, non alle macchine, prendere decisioni: l’IA non è un vaso di Pandora, non ha un destino ineluttabile, ma è nelle mani, nel cuore e nella testa degli esseri umani decidere come usarla, e come fare in modo che protegga le persone e la loro privacy. Avere chiaro questo aspetto, e le sue implicazioni, diventa cruciale per i leader e i policy maker, chiamati a rispondere a domande essenziali: cosa possiamo fare, cosa dobbiamo decidere – e quindi, come vogliamo essere. Questo è particolarmente vero nel nostro Paese, così denso di cultura umanistica: invece di utilizzarla a pretesto per svalutare le competenze informatiche – sulle quali dobbiamo invece recuperare terreno -, dobbiamo fare leva sulle peculiarità derivanti dalla nostra storia, dalla capacità di far emergere il bello, dall’empatia, dalla facoltà di giudizio. Solo così – conclude il Manifesto – quando il futuro ci troverà, ci faremo trovare pronti, poiché come immaginiamo il nostro futuro, così agiamo; come agiamo, così diventiamo.
Scarica il Manifesto per l’Intelligenza Artificiale
*Autori:
Massimo Chiriatti, CTO Lenovo Italia
Nicola Intini, Manager e Imprenditore
Corrado La Forgia, Vicepresidente Federmeccanica
Paola Liberace, Esperta in competenze digitali